Rosso Riserva Vignalta

Questo rosso corposo arriva sulla mia tavola in regalo. Un amico passa da Padova e, sapendo che si sarebbe fermato da me, pensa bene di presentarsi con un vino di quelle parti. Dei colli euganei, per essere precisi.

Arrivato in regalo, cercato a Milano e non trovato ma... mai dimenticato

Presentarsi a casa di qualcuno con del vino, in generale, è una felice idea; nello specifico, si rivela un’idea eccellente, considerata la qualità del vino.  Per coloro che seguono queste cose più di me dico che si tratta di una varietà  60% Merlot e 40% Cabernet Sauvignon, e che va bevuto preferibilmente a una temperatura di 18° (etichetta docet). La vendemmia, nel nostro caso, era quella del 2009.

Non ricordo molto della cena cui lo abbiamo accompagnato, ma ricordo chiaramente l’impressione che ha suscitato.

In seguito ho cercato l’etichetta a Milano, in diversi posti in genere ben forniti, ma senza successo. Mi toccherà ordinarlo su Internet. Ad ogni modo, se passando in rassegna lo scaffale dei vini veneti il vostro occhio si posa su questo “esemplare”, be’, non lasciatevelo scappare.

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Falanghina

Forse comincio da qui perché è un vino delle mie parti. Mi verrebbe da dire che è “il” vino delle mie parti. A Napoli le persone comuni, quelli come me, quando pensano a un bianco pensano alla falanghina.

falanghinaLo accompagniamo a quasi tutti i piatti di pesce, agli spaghetti con le vongole e alle impepate di cozze. Lo beviamo soprattutto d’estate, bello fresco, di sera, in uno di quei posticini belli davanti al mare: a Pozzuoli, a Baia, a Bacoli, a Capo Miseno. Non manca però sulle tavole invernali e durante le feste, a Natale come a Pasqua. In compagnia di altri vini più adatti alla stagione, magari, alle serate con le finestre chiuse, ma se chiedi, in genere, lei c’è.

Salito al Nord ho imparato ad apprezzare bianchi dal sapore più complesso o, come dicono gli intenditori, più strutturati: al confronto la falanghina può apparire un vino semplice, di mero accompagnamento. Ma devo dire, la maggior parte delle volte, va bene anche così.

Nella mia cantina ideale la terrei: per me, e per quando arriva qualche ospite delle mie parti: hai visto mai gli viene voglia di un sapore di casa.

Qb

Non voglio illudere nessuno. Non sono uno chef , o un gourmet, o un uomo dal palato fine. Mangio perché mi piace e perché trovo divertenti molte fasi della preparazione del cibo: affettare i pomodori, tagliare le zucchine, grattugiare le carote. Mi piacciono la superficie rugosa dei taglieri, quelli di legno in particolare, e tutti quegli attrezzini di cui non conosco il nome. Il pelapatate è il mio preferito, ma anche il passaverdure (si chiama così?) e l’affare per sbucciare l’ananas mi convincono abbastanza.

I sughi esercitano su di me un fascino particolare. Anche se si tratta solo di pomodorini e basilico mi piace fare attenzione all’intensità del fuoco, badare ai tempi, rimestare, fare in modo che i pomodori non restino crudi o si trasformino in una poltiglia secca e raggrinzita. Credo abbia a che fare con l’estetica più che con il gusto. Ad ogni modo sto lì, in piedi, a sorvegliare la padella con la dedizione di una guardia svizzera.

Mi piace sedere a una tavola ordinata, anche quando mangio da solo. Presto attenzione: alle posate, ai tovaglioli, ai bicchieri. Preparo tutto in anticipo, in modo che sia a portata di mano una volta seduto: il cestino del pane, la caraffa con l’acqua e, quando ci vuole, la bottiglia del vino. Il sale e l’olio, le spezie e i limoni: insomma, tutto quello che serve.

E le quantità. Né troppo, né troppo poco. Né miseri, né sfacciati: il giusto. “Qb”, come direbbe qualcuno.

Il caffé

Riempio il serbatoio fino alla piccola tacca sopra la valvola, poi metto tre cucchiaini di miscela scura nell’imbuto, senza pressare. Avvito con cura la parte superiore e, se è il caso, ripulisco la filettatura con l’angolo dello strofinaccio. Metto la moka sul fuoco, a fiamma lenta, e aspetto. Il caffè migliore lo prendo appena sveglio, di primo mattino. La città ha il volume ancora basso e il chiarore dell’alba è ancora incerto. Posso accendere la luce della cappa e stare immobile, avvolto in un calore familiare. Leggo, se ho un buon libro, oppure guardo la piccola fiamma blu che accarezza il fondo della macchinetta. Talvolta inspiro l’odore che mi è rimasto attaccato alle dita e mi lascio andare a qualche ricordo. Altre volte, semplicemente, aspetto. In tempi di capsule e Nespresso questa lenta e gratuita perdita di tempo mi sembra quasi un gesto sovversivo. Poi c’è uno sfrigolio che mi fa alzare. Il caffè sale lentamente, alimentato da un rivolo che scorre lungo il fianco della canna, coprendosi di uno strato di schiuma sottile, color nocciola. Quando è pronto gorgoglia e profuma. Chiudo il coperchio con uno scatto, provocando una voluta di fumo denso. Eccolo, l’odore del caffè, diverso da ogni altro. Il primo odore della giornata, che si apre nella cucina come un sorriso di benvenuto. Un pizzico di zucchero nella tazzina e siamo pronti. Verso e torno al tavolo, mescolando. Qualche volta accendo la tivù per guardare le notizie che scorrono, senza volume. Più spesso mi risiedo, chiudo gli occhi, mi concentro. Il caffè è nero e forte, vigoroso, con appena una punta di amaro. Lo bevo a piccoli sorsi. Sento La ragazza di Ipanema, vedo il Cristo a braccia aperte, il Pan di zucchero, il Corcovado. Poi i contorni della giornata vanno a posto, comincio a pensare alle cose da fare. E sono pronto, amico mio, sono sveglio. Posso cominciare.