E insomma eccoci qui, al finale di stagione. In realtà, al finale e basta. Se avete letto anche le prime due parti avete la mia eterna gratitudine. Se non lo avete ancora fatto e dovesse andarvi, trovate la prima qui e la seconda qui. Se lo fate, va da sè, avrete la mia eterna gratitudine.
In ogni caso, buona lettura.
4
Il concerto era andato bene. Nel palasport esaurito, a pochi metri dal palco, Andrea e Deb erano stati abbracciati la maggior parte del tempo. Avevano ballato vicini, avevano saltato e cantato, avevano battuto le mani a tempo con gli altri. Io mi ero limitato a guardarli, restando qualche fila più indietro, con Nico e Alessandro. Dopo un po’ li avevo persi di vista. Il gruppo faceva un rock tradizionale, alternando pezzi scatenati a ballate romantiche. Col passare del tempo tenere fermi i piedi era diventato impossibile e per quasi due ore avevamo ballato come pazzi. Alla fine eravamo sudati, affannati e contenti.
Avevo rivisto Andrea e Deb dopo l’ultimo bis, quando la folla aveva cominciato a scemare. Ragazzi come noi, coi giubbini o le felpe legati in vita, gli zaini sulle spalle e le guance arrossate. Molti di loro continuavano a cantare e a ballare. Deb e Andrea erano spuntati dal mucchio e ci avevano raggiunto. Camminavano abbracciati. Erano alti, atletici, sfrontati. In quel momento mi erano sembrati invincibili. Prima di riuscire a impedirmelo avevo distolto lo sguardo.
“Devo andare alla toilette”, aveva detto Debora, allontanandosi di nuovo.
“Qualcuno beve qualcosa?” Aveva proposto Nico.
“Io sto bene”, aveva detto Andrea.
“Anche io”, avevo detto io.
“Che palle”, aveva detto Ale. Lui e Nico si erano avviati verso il bar. A giudicare dalla fila che si vedeva alla cassa ci avrebbero messo un po’ a ritornare. Io e Andrea eravamo rimasti a guardarci.
“Ho deciso di raccontarle tutto”, aveva detto lui.
Per qualche motivo, la cosa non mi aveva sorpreso. “Non credo che sia una buona idea”, avevo risposto.
“Hai paura?”
“Certo che ne ho. E dovresti averne anche tu”.
“Be’, io non ne ho”.
“Sei un pazzo”, gli avevo detto.
“Senti”, mi aveva interrotto lui. “Capisco che hai paura. Forse dovrei averne anch’io. Non lo so. Quello che so è che non voglio passare un’altra serata come questa, piena di bugie. Non voglio fingere di star bene quando non è vero. Non me lo merito. Deb non lo merita”. Aveva fatto una pausa. Avevo temuto che stesse per fare qualcosa di cui entrambi ci saremmo pentiti, ma si era limitato a darmi un colpetto col pugno sulla spalla. “E non lo meriti nemmeno tu”, aveva concluso.
“Lascia che sia io a preoccuparmi per me”, avevo risposto. Eppure, in quel momento, avevo avvertito per la prima volta che qualcosa in me era sul punto di cedere. Avevo provato a giocare l’ultima carta.
“Tu la ami”, avevo detto, con tutta la convinzione di cui mi sentivo capace.
Lui aveva annuito e aveva continuato a fissarmi. Doveva averci pensato a lungo ed era evidente che aveva preso la sua decisione. “È vero”, aveva risposto. “Ma a questo punto non credo che basti”.
Non sapevo cosa dire. Deb ritornava, con la sua falcata decisa, superando i drappelli di coloro che si attardavano a uscire. Dietro di lei gli attrezzisti smontavano il palco.
5
In macchina, sulla via del ritorno, Deb aveva provato a fare conversazione, poi a cantare qualcuno dei ritornelli. Io e Andrea avevamo cercato di collaborare ma alla fine il nostro scarso entusiasmo aveva avuto la meglio. Aveva rinunciato. Si era adagiata contro lo schienale del sedile posteriore, aveva chiuso gli occhi e dopo un po’ sembrava essersi addormentata.
Io mi ero sforzato di tenere gli occhi sulla strada. Andrea, di tanto in tanto, si voltava a guardarmi. Percepivo la sua presenza al mio fianco e l’ovale del suo viso con la coda dell’occhio. Forse mi studiava, forse avrebbe voluto parlarmi ma era frenato dalla presenza di Deb. Io lo ero.
La statale correva dritta per la maggior parte del tempo, attraversando una pianura di campi protetti da macchie di pini e fattorie isolate. Di tanto in tanto in lontananza, come sospesa nell’aria, si scorgeva la luce di una finestra accesa. Dietro e davanti a noi il traffico di quelli che tornavano in città dal concerto. Nell’altra direzione poche macchine e qualche camion diretto all’autostrada.
Sentivo le cose sfuggirmi di mano. Ricordavo bene il modo in cui mi ero sentito nel breve periodo in cui io e Andrea ci eravamo visti di nascosto, quella specie di febbre che mi assaliva a intervalli sempre più brevi e che si placava solo quando riuscivo a incontrarlo. Ricordavo la forza con cui mi aveva strappato dalla mia vita ordinaria. Eppure, nemmeno nei momenti più intensi avevo creduto che quell’esperienza potesse cambiare qualcosa. Era un gioco da adolescenti capitato da adulti, lo avremmo giocato e saremmo tornati indietro.
Andrea mi aveva posato una mano poco sopra il ginocchio. “Ehi”, aveva sussurrato, facendomi sobbalzare. Istintivamente avevo sbirciato nel retrovisore. Deb continuava a dormire.
“Ehi”, aveva ripetuto Andrea, stringendo leggermente la mano. Attraverso la stoffa dei jeans potevo sentire il suo palmo caldo e la presa sicura delle sue dita. Ero stato costretto a guardarlo. Lui sorrideva. Aveva denti perfetti e labbra carnose. Sorrideva come se fossimo soli.
“Ehi”, avevo detto.
“Smettila di tormentarti”, aveva detto lui, con la sua voce tranquilla. “Andrà tutto bene”.
“Già”.
“Ti fidi di me?” La sua mano su di me, la certezza che irradiava dal suo sguardo, il ricordo improvviso del suo odore che aleggiava in casa mia.
“Sì”, avevo risposto. “Sì, mi fido di te”.
“Bravo, ragazzo”, aveva ritirato la mano. Il suo sorriso, se possibile, era diventato ancora più aperto, i suoi occhi brillanti…
Ero tornato a guardare la strada e un fascio di luce accecante mi aveva investito. Avevo udito la voce di Andrea mormorare qualcosa, poi uno stridore di freni, poi un urlo.
Poi il buio.
6
“Sei vivo?” La maglia inconfondibile dei Glasgow Rangers riflessa nello specchio del bagno. Il rumore dell’acqua che scorre nel lavandino. Il brusio delle conversazioni che filtra dalla porta che la mole imponente di Ale tiene aperta. La mia faccia che sembra uno schizzo di Munch.
“Sì”, rispondo. “Sono vivo”.
“Stai bene? Di là già pensavano che fossi svenuto”.
“Sì, sto bene”.
“Hai vomitato?”
“No”.
“Ti sei fatto una sega?”
“Forse, pensando a tua madre”.
“Ne dubito. Lei è troppo per te”.
“E tu che ne sai?”
“Ti muovi sì o no?”
Chiudo il rubinetto. Tiro via una manciata di asciugamani di carta e mi strofino il viso e le mani. Per qualche istante mi resta nel naso il loro odore molle di cartone bagnato. Faccio una pallottola e la butto nel cestino. “Arrivo”, dico.
“Alla buonora”. Ale mi tiene aperta la porta. Mentre lo supero mi dà un buffetto sul collo. “Sei una checca”, mi dice.
Io mi giro, lo guardo fisso, gli sorrido. “Forse sì”, dico, attaccandomi a lui.
Lui mi spinge via facilmente. “Cammina va’”.
Ci avviamo verso il tavolo dove Nico e Deb stanno ridendo di qualcosa. Deb mi vede. Il suo sguardo si congela. Finalmente capisco.
Quella sera, la sera dell’incidente, lei aveva gli occhi aperti.