L’ora dei fantasmi

Mi sveglio sudato, con lo stomaco indolenzito, in preda a un diffuso malessere. È buio. Jonne è sdraiata al mio fianco, girata di spalle. Non capisco se dorme o è sveglia. A scanso di equivoci, mi alzo con cautela. Il gatto, che come al solito è allungato tra noi, non fa una piega.

In cucina l’orologio digitale sul microonde indica le quattro e qualcosa in rigorosi numeri verdi. Prendo l’acqua dal frigo e bevo un primo bicchiere tutto d’un fiato, poi me ne verso un secondo e sorseggio, appoggiato al lavello, dicendomi per l’ennesima volta che devo smettere di pasticciare con gli aperitivi e di saltare la cena. Ho la pancia gonfia e dura come un tamburo. Lascio il bicchiere nel lavello e torno a letto. So che ora mi aspettano ore di difficoltoso dormiveglia, di movimenti circospetti e di attesa, col cervello che rumina recriminazioni e catastrofi. Le scelte importanti della vita che ho sbagliato, le opportunità che ho perduto, la piega leggermente estranea che ha preso la mia vita. Nessuno dovrebbe stare sveglio suo malgrado nelle ore che precedono l’alba. È l’ora dei fantasmi.

Cerco un appiglio per risalire o almeno per fermare la discesa agli inferi. Sono pensieri inutili, mi dico. L’uomo è l’unico essere capace di farsi male in questo modo. Mi viene in mente la battuta di un film che ho visto qualche tempo fa. Un prete parla con un bandito. Il prete è in punto di morte, il bandito ha perso la memoria ma, guarda caso, è in cerca di redenzione. “Non importa chi sei stato”, dice il prete, “importa chi sei adesso”. È incoraggiante, sì, ma a quest’ora il mio cervello non si lascia ingannare.

“Poco male, Gian”, mi dice. “Tanto tu sei lo stesso di prima.”

Ecco, appunto.

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