Spaghetti alle vongole

No, non è una ricetta, ma una dichiarazione d’amore. Li preferisco bianchi, al massimo rosé, ma posso fare un’eccezione se i pomodori sono quelli giusti: maturi, veri, carichi di terra fertile e di sole. La pasta, spaghetti n. 5, ma da zio Pesce a Milano ho fatto una piacevole incursione nei tagliolini e ne è valsa la pena. Ovviamente, vongole fresche, altro che grappoli da banco del supermercato. Se possibile, mischiate ai più teneri e discreti lupini. Aglio appena appena, uno sbuffo di pepe, una spruzzata di prezzemolo tritato subito prima di servire.

No, non è una ricetta. È una stagione, uno stato d’animo. È la porta di ingresso per lente sere d’estate, per terrazze di legno affacciate sul mare limpido, riflessi di luna, facce e braccia abbronzate, vestiti leggeri, pensieri positivi.

È un’idea sbocciata galleggiando placidamente sulle acque limpide della costiera, abbandonati su un materassino, con i piedi a mollo. La voci della spiaggia lontane, la pelle rosolata dal sole caldo del primo pomeriggio. “E stasera, cosa facciamo?”

“Ceniamo fuori. Magari a Nerano, quel posto sulla spiaggia”.

“Spaghetti alle vongole?”

“E falanghina fresca. E prima ci dividiamo un’impepata di cozze”.

“No, vabbe’. Mi hai convinto”.

E la giornata si trasforma in un’attesa. La nuotata delle quattro, l’ultima prima che il sole sparisca dietro il promontorio, mentre l’acqua torna ad essere pulita. La doccia prima di salire verso casa, fredda, pubblica, col fiato che si mozza e l’arcobaleno che balla tra gli schizzi. Il rito della crema sulla schiena, io e te che filiamo in camera prima degli altri per fare l’amore. Guardarti scegliere i vestiti, allacciarti i sandali. “Sono pronta”, dici. E lo sei. Abbronzata, semplice, bellissima.

Risaliamo in macchina leggeri. Guido piano, come nella canzone. Questo posto è magnifico. Le frazioni appollaiate tra i tornanti, rivelate solo dalle luci delle case. La gente del posto che sfreccia impavida sui motorini scalcagnati. I profumi che ci invadono dai finestrini aperti. Il mare, lucido e nero, che ci cattura gli occhi ad ogni curva. “Stai bene?”

“Benissimo”.

“Hai lo sguardo trasognato”.

Sorrido, non dico niente. Sono pieno della tua voce e della tua presenza. Riconoscerei ovunque l’odore del tuo shampoo. “Come li prendi?”

“Bianchi, che domande”.

“Brava. Bianchi, non c’è altro modo”.

Così arriviamo. Il ristorante è semplice e pieno, una leggenda del posto. Un  cameriere anziano e spigoloso, dalle mani grandi, ci accompagna al nostro tavolo tra il vociare allegro dei turisti. Prendiamo posto accanto al parapetto, le suole appena sopra il pelo dell’acqua. Il legno è ruvido e caldo, genuino. La risacca mormora tra i cittoli levigati della riva. “Vi porto il menu?”

“Non c’è bisogno. Un’impepata da dividere, due spaghetti alle vongole, bianchi, mi raccomando, e una bella falanghina”.

“Vi suggerisco quella della casa, se posso permettermi”.

“Certo, può. La prendiamo”.

Lui se ne va, restiamo noi. Parliamo, ridiamo. Quando arrivano i piatti l’impepata ci unge le labbra e ci insozza le dita. Lasciamo scie ovunque, sulla tavoglia, sui tovaglioli, sulla mia camicia, com’è ovvio. Una famiglia di tedeschi ci guarda rubizza dal tavolo accanto. Sono enormi, allegri, fracassoni. Alziamo i calici. “Salute!”

“Zaluten!”

Poi arrivano gli spaghetti, tutti insieme. Bianchi per noi, rossi per loro. Non puoi fare a meno di scuotere la testa. “Tedeschi”, mormori con compassione. E cominciamo. Stacco qualche vongola con la punta della forchetta, lasciandola cadere sulla pasta. Ma la maggior parte no, la maggior parte la prendo per le valve con le dita e mangio, con labbra e denti, alla maniera antica, l’unica vera. Poi getto il guscio nel piatto degli scarti, godendomi lo schiocco dei resti che si ammucchiano. Tac, tic, trac: più che un rumore, una melodia. “Ti piacciono?”

“Sì”.

“Altro vino?”

“Sì”.

E la serata va, e l’estate pure. E credo proprio che tra qualche giorno tornerò qui, con te, per ricominciare da capo e mangiarne ancora.

 

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