“Ma ti sei messo a fare il sommelier?” Mi chiede la mia amica, stupita per le mie recensioni enologiche. In effetti, non sono famoso per la mia competenza in materia (non sono famoso per la mia competenza in generale) e normalmente non mi spingo molto al di là del semplice piacere di bere, di vedere rilassata la compagnia e di ammirare la composizione formata sulla tavola da una bella bottiglia e da calici ben fatti.
Inoltre, devo proprio confessarlo, i sommelier mi stanno pure un po’ sul gozzo, per non dire altro. Non mi piacciono le arie che si danno, il linguaggio che usano, quell’atteggiamento da depositari di una conoscenza esoterica che per pura condiscendenza divideranno con noi, ma senza esagerare, nel tentativo di rendere aristocratica una delle cose più democratiche che c’è.
Anche i gesti, a dirla tutta, mi sembrano un po’ così: quel mettere il naso nel bicchiere (sì, il bicchiere, il bic-chie-re!), far girare il vino, farlo andare di qua e di là prima di ingoiarlo, tutto quello schioccare di labbra… insomma, che palle, lo bevi o no?
Ma allora perché mettersi a scrivere dei vini che bevo? Perché, innanzitutto, il vino mi piace, e mi piace perché prima ancora di essere bianco, rosso, intenso, corposo, fruttato, complesso, aromatico, leggero, brioso, pesante o noioso, il vino è vivo. Ne scrivo perché mi affascina la sua capacità di trasformarsi e interagire con l’ambiente circostante. Ammiro la sua richiesta di attenzione (servimi un pochino più freddo, amico mio, più freddo!), il modo in cui reagisce agli stimoli, la sua capacità di dialogare. Lo solleciti con la carne rossa? Lui ti dà una risposta. Gli proponi una carne bianca? Lui te ne dà un’altra. Lo stuzzichi con del pesce? Lui ti manda al diavolo o ti regala un’esperienza irripetibile. Lo trovo fantastico, oltre che divertente. Se sei da solo a tavola e hai una bottiglia di vino puoi passare la serata a sperimentare senza rincretinirti per forza davanti alla tv (lo so, è un’affermazione che si presta a interpretazioni inquietanti, ma tant’è. Magari, dopo, evitate di guidare).
Resto sbalordito quando percepisco, perfino io, il cambiamento di sapore e di aroma che avviene nel vino quando prende aria o, come dicono loro, quando si ossigena. Certe volte sembra di bere da due bottiglie diverse. È un esperimento di alchimia in diretta, che mi avvince. Scrivere di vino, quindi, è in primo luogo un modo per condividere questo gioco e le scoperte che si associano.
E poi c’è il secondo motivo, che definirei letterario. Mi affascina la sfida di riuscire a scrivere del vino senza utilizzare il famoso linguaggio esoterico o, almeno, riuscire a renderlo comprensibile. Mentirei se vi dicessi che non sono interessato a distinguere una vinaccia da un tannino, né che non mi interessa saper utilizzare queste parole a proposito. Ma, ecco, vorrei farlo senza supponenza, inserendole in un racconto comprensibile e, perché no, magari divertente. Senza dover per forza far schioccare le labbra, insomma.
D’altronde, quand’ero giovane e volevo fare lo scrittore avevo letto da qualche parte che la scrittura è un atto divino. Ora, che sono un umile redattore, non aspiro a tanto: va già bene se la mia scrittura si limita a un piacevole resoconto di vino.
Trovo questo articolo bellissimo!
Ormai la clientela cerca semplicità e chiarezza. Per gente curiosa come me che si avvicina al mondo del vino è essenziale!
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Ciao Andrea, grazie per il commento. Spero di esserti utile anche in futuro. Buone vacanze e buon vino 😉
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Sicuramente! a presto 😉
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