Voglio fare l’amore con te in tutte le città d’Italia. Voglio farlo a Venezia, a Roma, a Firenze, a Catania, a Milano, a Napoli, a Palermo, a Bologna. Voglio farlo nei borghi medievali, nella baite di montagna, in riva al mare, con la sabbia che si appiccica alla pelle e si impasta nei capelli. Voglio farlo d’inverno mentre fuori piove, e d’estate, con le finestre spalancate e il sudore che ci cola lungo i fianchi. Voglio farlo ai bordi della strada, in macchina, sul sedile posteriore, come adolescenti in un drive in. Voglio farlo a casa dei nostri amici tra una portata e l’altra della cena, di nascosto. Voglio farlo sul traghetto, in treno, e se siamo bravi anche in aereo, in piedi, contro la porta chiusa della toilette di coda. Voglio guardare le tue gambe inguainate nelle calze, conoscere a memoria le tue scarpe, le camicette, i cappelli, le mutande. Voglio svegliarmi ogni mattina avvolto nel tuo odore.
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Conversazione
“Perché non ti sei mai sposato?”
“Ti sbagli. Mi sono sposato, e sono anche rimasto fedele per tutta la vita: al piacere di camminare leggero per strada senza fretta, all’ordine della mia casa, alla libertà di scegliere in ogni momento le cose che mi va di fare…”
“Sembra una cosa da ragazzini.”
“Non lo è.”
“Ma hai pagato un prezzo.”
“Tutti lo pagano. Anche quelli che sposano un’altra persona. È solo un prezzo diverso.”
“E non ti senti mai solo?”
“Qualche volta, sì. Ma tu? Hai una bella moglie e due splendide figlie. Non ti senti mai solo?”
Ci pensa. “Sì”, dice. “Qualche volta sì.”
Bevo un altro sorso della mia birra e aspetto la prossima domanda.
Di quel mistero chiamato amore
Lo so, questo farà ridere qualcuno, ma uno dei temi attorno al quale più mi piace leggere e scrivere è l’amore. Eh già. Resto convinto che sia l’unico sentimento che conta, quello che spinge gli uomini a fare o non fare le cose, che li rende tristi o felici, che dà senso alla vita, che tira fuori risorse inaspettate quando servono. O che spegne la luce quando non ce n’è più.
Così mi piacerebbe scrivere una serie di storie che affrontino le sue diverse facce, come tasselli di un mosaico: l’amore di un uomo per una donna, di una madre per un figlio, l’amore tra fratelli o tra amici, quello di un figlio per i genitori. Ma anche l’amore per l’arte e la bellezza, l’amore per il mare, l’amore per la patria, per un animale o per la natura. Senza moralismi e senza verità: solo il mio modo di vederlo, di cercarlo o, come è più probabile, di fraintenderlo.
L’idea mi è venuta in viaggio. Ovunque io vada, che ci vada da solo o in compagnia, qualsiasi posto io visiti – che sia un antico borgo toscano, una metropoli americana o un sentiero nebbioso sulle Dolomiti – ciò che più di ogni altra cosa mi colpisce sono le coppie di turisti che incontro sul mio cammino. Più degli spettacoli della natura, più della bellezza dei castelli e delle chiese, persino più dei quadri che pure mi fermo ad ammirare nei musei, ciò che più sollecita la mia immaginazione sono le persone che viaggiano in coppia.
Adoro le coppie di ragazzi di vent’anni al loro primo viaggio da fidanzati, il loro modo di copiare gli adulti mentre affrontano le cose; comprendo la loro eccitazione al pensiero di fare l’amore nella tenda, o nella camera d’albergo, liberi finalmente di poter dormire insieme senza sotterfugi. Ma adoro anche le coppie di stranieri coi bermuda e i sandali aperti, i loro modi svagati ed informali, la loro naturalezza nel tenere a bada i figli piccoli, spesso silenziosi e bellissimi, e il fatto che li portino nel marsupio o nel cestino del tandem, senza alzare la voce, senza spingerli, senza prenderli a schiaffi sul sedere.
Mi piace guardare le coppie di anziani che ancora camminano insieme mano nella mano, che siedono ai tavolini dei caffè all’aperto, protetti dagli ombrelloni con le marche della birra o in pieno sole, davanti a grandi coppe di gelato. I miei preferiti sono quei tedeschi altissimi, con le magliette a righe orizzontali, accompagnati da matrone sorridenti coi capelli raccolti sulla nuca. Il modo in cui si sforzano di parlare in italiano mentre indicano col dito qualcosa sul menù. Mi piacciono le risposte nell’inglese spicciolo dei nostri camerieri e il fatto che, alla fine della confusione linguistica, sul tavolino qualcosa di buono arriva sempre.
C’è sempre, poi, tra le ragazze che servono ai tavoli, qualcuna che attira la mia attenzione, per il modo in cui sorride, per come scrive sul blocchetto o per come incrocia i piedi mentre prende le ordinazioni; per come, tra una corsa e l’altra, si ravviva i capelli o si asciuga le mani sul grembiule. È un momento immancabile, quello della ragazza del bar, e i miei taccuini sono pieni di firme di ragazze a cui ho chiesto di condividere un frammento di cammino, di lasciarmi un ricordo o un pensiero, un attimo di attenzione fugace: molte lo hanno fatto col sorriso e conservo i loro nomi scritti in grandi lettere tondeggianti, come una collezione di piccoli oggetti preziosi. Anche di loro, naturalmente, mi sarebbe piaciuto saperne di più, conoscerne la vita e le emozioni, quel che sanno o che non sanno dell’amore.
Ma questa, come si vede bene, è un’altra storia.
Il primo sapore della mia vita
Una volta mi hanno chiesto quale fosse il primo sapore della mia vita. Ho rovistato per un po’ nella mia memoria culinaria senza trovare nulla poi ho avuto un’illuminazione. “Non è un sapore tradizionale”, ho detto. “Va bene uguale?”
“Meglio ancora”, mi hanno detto.
Ebbene, quand’è così… Il primo sapore della mia vita è stato il bacio di Serena.
Il posto si chiamava Pietrabianca, un agglomerato di case di vacanza a due passi da Diamante, in Calabria. Era l’estate del 1989. Di sera, dopo il juke box e il biliardino, lasciavamo gli altri al bar per appartarci in qualche viale a parlare di chissà che. Io parlavo un sacco, lei pure, ma non chiedetemi di cosa perché non lo ricordo. Ricordo solo che una sera capitò: smettemmo di parlare e ci baciammo. Il mio primo bacio vero. Sì, insomma, con la lingua. Fino a quel momento c’erano state solo segrete esultanze dopo le sessioni di “Obbligo o verità” alle feste delle classe. Giorni di commenti con gli amici per un bacetto a timbro sulle labbra, in punta in punta.
Anche lì credo di ricordare la prima: Maria, affettuosamente ribattezzata “la caciottara”. Era una a cui piaceva far casino e ogni tanto litigava con l’italiano, però era bella. O almeno, sembrava bella allora. Comunque la sera del mio compleanno, seduta in terra di fronte a me, quando fu il suo turno disse “obbligo” e il mio amico senza esitare disse “dagli un bacio” e mi indicò. Non se lo fece ripetere due volte. Si avvicinò, si chinò su di me e un attimo prima di baciarmi chiese pure: “Posso?” Che domande. Certo che puoi, anzi, già che ci sei datti pure una mossa.
Che felice stagione, quando erano le ragazze a cercare di baciarmi e ci riuscivano, prima che le cose cambiassero e io cercassi di baciarle senza riuscirci.
Di quel bacio però non ricordo altro. Né odore né sapore, solo un piacevole formicolio alla base del collo che mi accompagnò per qualche giorno.
Di Serena, invece, ricordo tutto. La camicetta bianca senza maniche, i jeans, i capelli legati in una coda, il suo accento milanese e, naturalmente, il sapore: menta fresca, perché prima di baciarmi non aveva buttato via il chewing-gum. Una Vivident, ci scommetto, anche se con il passare degli anni mi sorge il dubbio che fosse una Vigorsol.
Ad ogni modo il primo sapore della mia vita è lei. Avevo diciassette anni, era estate ed ero innamorato. Dopo ho dato altri baci e ho assaggiato molte cose, ma niente mi è rimasto attaccato alla memoria come quel chewing-gum di ritorno assaporato di sera, in un viale alberato, lungo la costa calabra. Doveva essere una Vivident. O forse era una Vigorsol.
Vallo a sapere.