Never flinch

Il mio libro del mese è Never flinch. La lotteria degli innocenti, di Stephen King, fresco di stampa.

Il romanzo conferma l’impressione che avevo avuto mesi fa leggendo i racconti di You like it darker: King è in ottima forma e sta invecchiando molto bene.

Dopo un periodo di flessione, dove romanzi come L’istituto o Billy Summers sapevano un po’ troppo di vecchio mestierante, di libri scritti “per contratto”, con le opere di questo ultimo anno e mezzo King ritorna molto vicino al suo antico splendore: una scrittura diretta ed efficace e una storia che corre dritta dall’inizio alla fine senza troppi fronzoli. Nonostante il romanzo tocchi le 500 pagine, infatti, non ho mai avuto la sensazione che le cose stessero andando per le lunghe.  

Il punto più interessante, tuttavia, è il fatto che King, qui come in alcuni dei racconti migliori di You like it darker, rinuncia completamente al sovrannaturale per cimentarsi in un thriller classico. L’unica dimensione sovrannaturale, se tale la si vuole considerare, è il fanatismo religioso di alcuni dei protagonisti. Per il resto, con una brutale semplificazione, si può dire che questo romanzo è la storia di un killer folle e delle persone che gli danno la caccia. Una semplificazione un po’ brutale, appunto, perché nel libro c’è anche una seconda linea narrativa, apparentemente autonoma, ma che alla fine, quasi inevitabilmente, finisce per intrecciarsi con la principale.

Tutto ciò per dire che siamo fuori dall’universo dell’horror classico: niente vampiri, licantropi o altre creature da altre dimensioni. Il mostro è completamente umano.

Nel romanzo si amplifica, secondo me, una delle migliori caratteristiche di King, che emerge d’altronde in tutta la sua produzione, anche la più classica (pensiamo ai quattro indimenticabili racconti che compongono Stand by me): la sua capacità di essere uno scrittore vero, ben oltre i confini del genere, nonostante egli sia giustamente venerato in tutto il mondo come il “re dell’horror”. Non credo proprio che gli dispiaccia, ma è un’etichetta che a mio avviso non gli rende giustizia. King è più di questo: il suo più grande talento, secondo me, è la capacità di rappresentare un certo tipo di America. In particolare, quella che vive all’ombra del sogno americano, l’altra faccia della medaglia: l’America di quelli che non ce l’hanno fatta, degli emarginati, dei perdenti, delle vite segnate dalla solitudine, dall’alcool, dalla droga, dalla sopraffazione, dalla violenza e dall’ingiustizia sociale.

Non a caso i migliori personaggi di King, con la sola eccezione, talvolta, dei personaggi/scrittori, sono in genere uomini della classe operaia, lavoratori umili, qualche volta agenti delle forze dell’ordine, gente che si impegna per sbarcare il lunario e che opera per il bene nonostante tutto. Quanto più si sale nella gerarchia sociale, invece, tanto più si incontrano bassezza morale, avidità, nevrosi, psicosi, tensioni pronte a esplodere con conseguenze imprevedibili.

In particolare, queste ultime si annidano – nei protagonisti della working class quanto in quelli della upper – in quello che invece dovrebbe essere l’alveo sicuro per eccellenza, e cioè la dimensione domestica, la vita familiare.

Ecco, questa capacità di raccontare l’America attraverso un certo tipo di americani, in particolare di quelli lontani dalla luce dei riflettori, emerge ancora di più nei racconti e nei romanzi in cui non ci sono mostri o incubi infernali a distrarci, dove tutto resta dentro i confini dell’umano.

In questo senso, Never flinch può essere considerato un romanzo esemplare, la testimonianza matura delle capacità di King di essere uno scrittore a tutto tondo e di rappresentare l’umano e il disumano anche senza ricorrere al “facile” filtro del mostro alieno.

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