Sketching

Non ho mai saputo disegnare, dunque scrivo. Sì lo so, Cartesio ha fatto meglio, ma insomma lui era lui e io sono io.

Comunque. Diversi anni fa viaggiavo molto, soprattutto d’estate. Quando arrivava il giorno delle vacanze mettevo quattro cose nello zaino, gettavo lo zaino e la tenda sul sedile posteriore della mia innocenti rossa e via. Passavo a prendere Dario, il mio compagno di avventure, gettavamo il suo zaino accanto al mio e imboccavamo l’autostrada. Alla “via così” come direbbe Jack Sparrow, verso i nostri dieci/dodici giorni on the road, muniti dell’inseparabile guida ai campeggi del Touring Club. Che ci crediate o no, prima di Google e dei cellulari questi erano i mezzi.

Abbiamo visitato in questo modo la Toscana, l’Umbria, un pezzetto della Puglia; siamo arrivati a Santiago di Compostela e, contro tutti i pronostici, siamo pure tornati, in quello che resta il viaggio simbolo della mia tarda adolescenza. Poi le nostre vite hanno preso altre strade, mogli, fidanzate e ciascuno di noi si è dato a vacanze più convenzionali. Prima però sono andato in Sicilia, da solo, a cavallo di un Beverly Cruiser nero fiammante che è e resterà l’amore ciclomotoristico della mia vita. Un giorno magari ve ne parlerò.

Ad ogni modo, come si può notare dalle destinazioni, facevamo viaggi d’arte. Spiagge solo di tanto in tanto, quando i morsi della canicola diventavano così feroci da spingerci a vincere la nostra naturale ritrosia a metterci in costume e a cercare refrigerio in una lunga nuotata. E poi, eravamo laureandi in lettere, io moderne, lui classiche; entrambi vagamente di sinistra, entrambi vagamente impegnati e pronti a cambiare il mondo “dal basso”, come si diceva, con le nostre future carriere professionali. Il viaggio culturale ce l’avevamo proprio scritto nel DNA.

Viaggiare con Dario è sempre stato facile. Stessi gusti, stessi interessi, ma sopratutto, stessi tempi. Entrambi eravamo fortunatamente immuni dalla sindrome giapponese che spinge a ottimizzare i tempi per riuscire a vedere tutto, ma proprio tutto, quello che c’è da vedere. Allora come oggi, ottimizzare è un verbo che non si accorda con le vacanze, così ci abbandonavamo volentieri a lunghe e indolenti pause, anche a costo di perderci qualcosa. Dario ne approfittava per leggere il giornale all’ombra di qualche albero secolare, allenandosi per la pensione. Io, sospettando già che la pensione non l’avrei mai presa, bighellonavo in giro, ammirando le cosce abbronzate e i polpacci prominenti delle turiste, alternando conversazioni smozzicate in inglese ad altre, leggermente più articolate, in francese. Con i tedeschi non sono mai riuscito ad andare oltre qualche sorriso ampio e compiaciuto. Ma soprattutto, in mezzo ai portali antichi, ai bassorilievi, agli affreschi, alle tele e alle meraviglie della scultura, ne approfittavo per contemplare il lavoro assorto dei ragazzi che vedevo seduti, leggermente in disparte, con taccuini o fogli di ogni forma in equilibrio precario sulle gambe. Riproducevano a matita, a pastello, a carboncino, le opere e i paesaggi che avevamo davanti. Per me erano loro, la vera opera d’arte. Se potevo mi avvicinavo, non tanto da avere la sensazione di dar loro fastidio ma abbastanza per poterne ammirare i lavori. Un senso dell’acquattamento discreto che mi porto dietro ancora oggi.

Provavo insieme ammirazione e invidia. Ammirazione per il talento, che consentiva loro di godere di un’esperienza che mi sembrava superiore. Riprodurre qualcosa in quel modo per me significa impossessarsene per sempre, scolpirlo dentro prima ancora che fuori. Vedere cose che altri non vedono, scoprire cose che altri non scoprono, avere accesso alla vera conoscenza. Invidia, perché volevo partecipare al mondo con la stessa intensità con cui mi sembrava vi partecipassero loro. Tuttavia, non avendo alcuna predisposizione per le arti figurative, ho dovuto fare le cose a modo mio: ho imparato a trovare il mio angolino in disparte, ad aprire il mio taccuino preferibilmente a righe, e a registrare per iscritto suoni, persone, emozioni, colori. Il mio modo di disegnare.

Ancora oggi, quando sono in giro, appena posso mi siedo nell’angolo di una sala di museo, sull’ultima panca di una chiesa, su un sasso all’ombra in uno scavo e scrivo, scrivo fino a quando non sento che tutto quello che ho dentro viene fuori e quel che c’è fuori è stato portato dentro così che l’esperienza sia al sicuro. Solo allora mi concedo di alzarmi, sgranchirmi le gambe e andare avanti; solo così sono sicuro di esserci stato davvero, di aver viaggiato, vissuto e di non aver sfiorato il mondo senza coglierlo o, addirittura, il tempo senza viverlo.

2 pensieri riguardo “Sketching

  1. Bellissime parole, come sempre.
    Non so se è legato al fatto di non saper disegnare, ma sicuramente la scrittura, come il disegno, è sempre riscrittura. Quell’atto così semplice e così antico di inscrivere, di lasciare un segno su qualcosa al di fuori di noi è un bisogno per molti; non so se è così per tutti, ma per me è una cosa fondamentale. Solo mettendo in forma le cose, le si ordinano; c’è chi lo fa con le parole, chi con i colori, chi con la musica.
    Mi piace molto questa cosa che dici sul mettere l’esperienza al sicuro, la sento molto mia. Prima di partire per il famoso viaggio di un mese in America, un’amica mi ha regalato un quaderno, il regalo più bello che mi potesse fare. Probabilmente se non me l’avesse regalato avrei perso un bel po’ di quest’esperienza. Ricordo l’ultima sera a San Francisco da sola in un bar a bere una sangria, in mezzo al casino della gente. Ho scritto queste parole: devo concentrarmi, devo sforzarmi affinché tutte queste immagini rimangano, se non nella mia mente, almeno in questa penna. Voglio ricordare tutto, questa ragazza di fronte a me che ride, voglio tenere le parole del cameriere, la pressione della penna sul foglio, le mie emozioni. Devo riuscire a tenere tutto insieme.

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